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Monthly Archives: febbraio 2010

Nella mente di una madre, un qualsiasi gioco non convenzionale, di qualsiasi dimensione, in mano al proprio figlio, ha una probabilità superiore al 12-13.000 % di introdursi negli occhi.

Di tutta la superficie corporea, l’area maggiormente colpita dai detriti sparati a velocità supersoniche, derivanti dal martellamento casalingo, rimane quella oculare.

Non importa quanto grave, triste, problematico sia, un sordo a teatro fa sempre ridere.

(a+b) / c = d
dove:
a = possibilità di sopportare l’esistenza di Pupo
b = possibilità di sopportare l’esistenza di Emanuele Filiberto
c = vie del signore
d = probabilità dell’esistenza di dio

La semplicità di un rapporto interpersonale è inversamente proporzionale alla capacità dei soggetti coinvolti di farselo bastare.

L’ipocondria è inversamente proporzionale alla capacità di ammettere di poter essere felici.

Si ammirano sempre quelle persone che nella vita decidono di prenderla in mano e cambiarla, fanno una pazzia e vivono liberi per il resto dei propri giorni. Si ammirano sempre, perché hanno avuto il coraggio che noi non avremmo o non pensiamo di avere, il coraggio di “mollare tutto” e andare per la propria strada.

Io, ci ho sempre visto un po’ di vigliaccheria, un po’ di egoismo e tanta solitudine. Che in realtà non ci sono, ma io sono sempre un cagacazzo incredibile, vuoi che non ci metta qualcosa di brutto in una cosa così bella?! 🙂

Insomma, tu fai progetti per il tuo futuro, spennelli la mente di pieghe possibili, di tracciati, percorsi, salti e tuffi, ma poi macini giorni uguali, senza spiccare il volo che ti avrebbe dato tutti quei sorrisi. Cosa sono i progetti, se non li si realizzano?! Un buon sapore per giornate insipide, uno sguardo perso, con il corpo incastrato in vestiti stretti e minuti contati.

“Io ho grandi progetti” è la divisa di chi evapora e la moneta di chi vuole incularti, ma c’è davvero chi ha progetti e li realizza, chi non ne ha, ma partecipa a quelli altrui, chi ne vorrebbe avere, ma non ha la possibilità di prendersi il tempo di pensarli. Io, di progetti, ne ho una marea. Piccoli, grandi, inutili, stupidi, irrealizzabili. Il fatto è che io so io, e io non sono un cazzo … eheh.

Una volta scrissi un raccontino in cui misi una stanza misteriosa, alla quale il protagonista non avrebbe avuto accesso sino alla fine della storia. La misi senza pensare a cosa metterci, da quando la inserii, una miriade di possibilità mi si accavallarono in testa. Lo stesso mi accade per le “cose”, continuo a pensare a progetti possibili, senza arrivare mai alla fine della storia. E quando ne parlo con qualcuno, magari mi ritrovo un sorriso di compassione, oppure due occhi grandi di condivisione. Poi mi si fermano lì.

E quando son morto, c’è stato tutto un tafferuglio di pensieri, di disincanto e di volo a vuoto, che mi ha fatto nascere altri sfizi, che non so se mi toglierò. Sono piccole cose, piccoli spazi e piccole idee, che forse un giorno prenderanno vita. Quando son morto, poi, ho capito di non essere mai stato in grado di capire il motivo dei progetti. I progetti si fanno per il piacere di condividerli. Quegli occhi grandi e quei sorrisi, sono sempre e comunque la moneta di maggior valore, che si possa sperare di ricevere.

Quindi eccoti un po’ dei progetti che mi son balenati in mente … giusto per farti ridere, sorridere o allargare il fiato:
– mentre vagavo nel vuoto della mancanza di un ikigai, ho pensato di voler scappare, andarmene da tutto e tutti, camminare con uno zaino pieno di poca roba, necessaria per vivere, il mio portatile e un sito: http://www.asad.com (acronimo del progetto: A Shower A Day), un diario di bordo di un vagabondo che non chiede altro che il permesso di fare una doccia, a casa di qualcuno, in cambio di un qualsiasi lavoro (baby sitter, lavori di briccolaggio, cambiare una ruota …). Il progetto aveva una fine, la fine prevista era di arrivare a morire di stenti, quando me la fossi sentita e lanciare un eseguibile che facesse mutare il logo del sito, sdoppiando la d finale e portandola in testa, girando quella rimasta in p e formare un nuovo acronimo (Die As Soon As Possible);
– realizzare un sito e un’applicazione per dispositivi mobili che permetta a chiunque abbia bisogno di un prodotto, di scoprire se nella zona circostante la sua attuale posizione, esistano rivenditori di quella merce, quali modelli e a che prezzo, in modo da decidere dove fare la spesa, quanto lontano e consigliare lo stesso ad altri;
– realizzare un sito e un’applicazione per dispositivi mobili che permetta di mostrare la propria posizione e la propria destinazione, su di una mappa, permetta di mostrarsi disponibili a raccogliere compagni di viaggio, oppure bisognosi di un passaggio; una comunità di carpooling istantaneo, con un’applicazione per telefonini/smartphone/portatili e tutta quella chincaglieria tecnologggica;
– scrivere il libro che rimugino da tempo, la storia di un uomo che, grazie alla semplice idea di non volersene andare dal luogo meraviglioso in cui vive, ma di non poter sopportare altri scempi di chi lo governa, riesce a costituire una società di persone con intento comune, inter e intra nazionale, che non riconosce i confini, se non per comodità gestionale e che crede nella cultura, nel rispetto e nella felicità, come uniche leggi fondamentali di una società, fino ad avere la meglio su tutti i governi avversi, grazie alla sola costituzione di università libere e centrali energetiche, con turni lavorativi di 4 ore giornaliere, dato che bastano e avanzano, visto che il valore di un uomo non è dato dal lavoro, ma è l’uomo a dover dare valore al lavoro;
– proseguire e concludere la stesura di un monologo teatrale chiamato “Pubbliche e Opinabili Epistole Sull’Immaginario Artistico” (sempre gli acrostici, io), nel quale raccolgo in una finta corrispondenza, citazioni reali e fittizie sulla poesia, comprendendo anche la mia idea di poesia (se vuoi conoscere la mia idea di poesia, vieni allo spettacolo, quando l’avrò portato in scena) e chiudendo il tutto con la piccola speranza che più persone si accorgono di essere poesia, meglio si riuscirebbe a sopportarsi e vivere meglio;
– DG, ma questo l’ho già scritto altrove;
– riprendere in mano la chitarra e impararmi tutto Aenima dei Tool, suonarlo in acustico in qualche pub con il nome scontato di Aenimacoustic;
– scrivere il manuale del multi-panteismo, la religione senza dogmi, il cui primo “suggerimento” è “il multi-panteismo è una stronzata”, così che i discepoli mantengano il proprio coinvolgimento al livello che una religione merita;
– continuare a innamorarmi e spingere chiunque io conosca, a fare altrettanto, che altro abbiamo?!
– aprire un blog (che in realtà ho già aperto, ma giusto per ricordarmi l’idea) chiamato “Never eat alone”, perché è una delle cose più tristi che esistano al mondo, il mangiare soli; in questo blog mi piacerebbe unire una ricetta giornaliera (che mi preparo realmente, così da darmi una disciplina, altrimenti mi perdo in schifezze veloci e poco sane), con una conversazione (reale o fittizia) con un blogger o un amico o con chiunque legga il blog e lo apprezzi; durante la conversazione la domanda principale sarebbe: “cosa avresti voluto sapere, sin dalla nascita, che avrebbe potuto cambiarti la vita?!” o “cosa vorresti sapesse la persona cui tieni di più al mondo?!”, ma non quei “vorrei salutare tutti quelli che mi conoscono, ah Ste, l’auto te la ripago, ma sappi che la tua ragazza ti ama ancora e suo figlio non è mio”, qualcosa di un po’ più intenso, insomma;
– realizzare l’interfaccia grafica intuitiva per dispositivi touchscreen, per ipovedendi, questa l’ho già stilata in una presentazione, quando la ritrovo, la pubblico;
– leggere, studiare, imparare e conoscere;
– aiutare qualcuno in qualcosa, qualsiasi cosa, così da guadagnarne il sorriso.

Mille altre cose sono più soffuse, confuse, assurde. Ma questi son quelli che mi tornano in mente ora. Magari nei commenti ne aggiungerò qualcuno. Ma se sei un informatico e pensi di potermi aiutare con uno dei progetti per i quali non saprei da dove cominciare, se sei un riccone che pensa che una di queste idee possa fruttare, se sei chiunque e pensi di poter realizzare qualcosa di migliore, prendi pure, magari citami a lavoro concluso, mi basterà quello. Sto imparando a liberarmi. Fallo anche tu.

Scorrono, a volte, tra le dita e i pensieri, delle giornate o dei periodi, in cui ti vien voglia di far ciò che pensi ti riesca meno peggio. E mi verrebbe voglia di scrivere, ma scrivere tanto.

Scrivere una di quelle storie che mi inventavo da piccolo, di quelle che non avevano coda, ma che da un capo scappavano di corsa, in roccamboleschi salti e ritrovamenti, abbracci e spinte e cascate e sbuffi. Io da piccolo avevo quella sbruffona capacità degli scrittori, quella sufficiente sicurezza di aver ragione, che ti permette di liberarti in parole.

Un po’ mi manca, ma ci sto lavorando. Sto cercando un’altra strada per raggiungere quella meta. Sto cercando la strada che passa dalla libertà.

Si può scrivere per mille motivi, come per mille motivi si vive. Io vorrei tornare a scrivere per far piegar la testa.

C’è una persona, a casa dei miei, che non ha smesso di parlare dal momento in cui ha messo un piede fuori dall’auto, una persona tonda, con tante palline in faccia e i capelli brizzolati. La ricordo uguale a sempre. Ricordo il suo sguardo.

Lo sguardo dei pazzi è una domanda. Lo sguardo dei pazzi ha più risposte di quante tu voglia sentire.

I pazzi fanno paura e affascinano, sono quell’umanità sublime che non sai se riusciresti a sopportare, se ti ci mettessi con la testa. C’è il fratello della donna tonda, che le parla ad alta voce, per abitudine, per necessità, per esperienza. Lei risponde cambiando discorso e parlando dei suoi parenti che hanno spalle larghe e sono alti altezze inesistenti.

Sto piangendo da due minuti per la semplicità della bellezza. La bellezza dell’esser perfetti, nella propria libertà. La bellezza di aver capito di esser soli, unici e inutili; la bellezza di farselo bastare.

Ho sempre amato i pazzi, li ho amati da stare male. Che li rivedo ancora e sempre in John, il mio pazzo preferito. Un bambino che saluto ancora, quando passo davanti all’ospedale che abbiamo condiviso. John era (è?!) autistico e diceva solo “a”, ma quando qualcosa non gli faceva male (quanta poesia c’è nel saper apprezzare una mancanza?!), lui, l’avvicinava al viso.

Io me lo ricordo ancora, ancora dopo quattordici anni. Me lo ricordo ancora il respiro di John sulla mia fronte.