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Category Archives: grazie

Ho sempre pensato che un regalo vero, dovesse essere qualcosa di fatto da te, con le tue mani, con la voce… con il corpo. Ok, compro un sacco di roba, in giro; accumulo mucchi di pensieri che, prima o poi, metto nelle mani di chi me li ha ispirati. Ma c’è quel qualcosa che, quando lo crei tu, un regalo sa di diverso. È più vero.

E io non ne ho fatti tanti, di regali veri. Non perché non volessi, anzi, ci provo sempre, ma è che non ho la capacità e la costanza di arrivare fino in fondo. Mi si sciolgono in futilità e mi sento ridicolo.

Quando le forze mutuate, però, ti alleggeriscono il compito e tu ti trovi che dopo un sacco di anni, hai ancora nel petto un sasso, ecco… lì arriva che la forza si mette a gravitare attorno al sassolino, e ci aggiungi un punto di vista che non avevi mai contemplato fino in fondo, aggiungi che ti suona più facile con quelle parole, aggiungi che la musica si presta, aggiungi che vuoi dirlo, vuoi che si sappia, vuoi che tutti sentano che ricordi.

E ci riesci… cacchio… non ci speravi nemmeno più.

Viene fuori come tante altre cose, ma tu sai che l’hai fatto con un qualcosa di diverso, dentro, che aggiunge significati ai significati. Non sta nel soggetto o nell’emittente, nemmeno in chi l’ascolta, forse, ma in tutti e in nessuno, il significato… lo sai tu e lo sa chi riceve il regalo.

E quando ti ringrazia pubblicamente… puoi anche smettere di respirare.

Che forse è l’autunno, o un altro errore, ma cadono in tanti, ultimamente. Amici che tornano o si trovano soli, amiche che non hanno più sostegni e si credono vuote, persone speciali che non smettono di lottare contro qualcosa che non capiscono essere sé. Sembra quasi che domani non debba venire. Forse dovrei cambiare identità, c’ho i creditori di risposte alle calcagna e non ne ho una.

Non so quale sia, o se esista , la formula per stare bene da soli, sono ancora incline a pensare che questa brama che quasi tutti abbiamo di mangiare altri, sia troppo profonda e radicata, per essere un costrutto della società (sì, ok, sto parlando anche di sesso, ma quello è sollievo, io sto parlando dell’appagamento che da l’altro respiro, di pelle a contatto, di risveglio sorriso a qualcuno). Certo, ci sono persone che sembrano eroi, si stagliano su speroni di roccia e alzano le braccia al cielo, con tutti adoranti, sotto, e nessuno al fianco. Invidio la capacità di farsi bastare questo freddo e lontano calore.

Forse è solo il solito discorso di aspettative e delusioni: ci crediamo tanto meritevoli, da pretendere qualcuno o qualcosa che non ci è dovuto. Sempre a rincorrere quel che non possiamo avere, dando per scontato regali e mani che qualcuno ci carezza. Ma se anche fosse vero che s’è fatto il possibile e non c’è premio, è la cazzo di vita, almeno si è nel giusto (e mentre ci si consola strafogandosi di nutella, l’unica a rimaner magra è la consolazione).

Non è un fingere o un recitare, o forse son troppo ottuso per non vederlo tale, ma è la necessità di respirare, che mi fa essere aperto, socievole, sorridente e ciarliero in situazioni conviviali, non certo la stabilità emotiva; non son capace di costruirmi sostegni a misura, faccio calcoli e delineo modelli quando son solo e non peso su nessuno, ma poi tra corpi e parole, sono il primo a ribattere palle da tennis prima che tocchino il pensiero due volte e si accumulino ai punti di sutura dell’anima. Che cazzo ho detto?!

Volevo solo dire che ci son momenti in cui aver avuto quel che ho sentito, mi basta e m’avanza per dire: “diavolo, c’è chi non ha mai fatto l’amore con una donna così splendida, c’è chi non ha mai sentito dappertutto un concerto, chi non ha mai mangiato e bevuto tutto questo, splendiamolo al mondo, che almeno servo a qualcosa”, e cammino ebete elargendo pace. Ci son volte, invece, che non c’è notizia splendida che mi sollevi dalla certezza di disturbare, dal bisogno di chiedere scusa e dall’orrore (per fortuna c’è Woody).

Insomma, quando mi hai vicino che ti sostengo con frasi fatte (mai quanto me), quando hai bisogno di qualcuno da chiamare e pigi il mio nome, quando mi trovi in mezzo ad altri che urlo gobbo per far ridere, è perché sto riuscendo a rispondermi “ok” (scusa lo spoiler), fallo con me. Spero si veda che non son sdraiato su mediocrità appaganti quanto basta, ma che provo a dare quel che posso e che ci penso e che ci tengo e che ci sono. Magari rispondo veloce con cazzate, per non far vedere che la domanda m’ha colpito, magari sdrammatizzo per sollevare, ma non è né noncuranza, né saggezza, né spocchia o quel che vuoi; è proprio che io non ho risposte e, spesso, se anche le avessi, non saprei dartele. Per non parlare del fatto che quando uno parla, gli altri sentono il cazzo che vogliono… ma questo è un altro discorso.

Mi sa che la risposta è: “cerca la risposta”.

Anche se son quasi certo che la risposta sia sempre quell'”ok” e il vero problema sia che ce lo dimentichiamo troppo spesso.

Incredibile quante volte io abbia ri-iniziato sto post. Esercizi di stile mi fa ‘na pippa. Mi sa che finisco per dire tutt’altro da quello che volevo dire in principio, ma la canzone ce la metto sicuro, perché è quella la molla che m’ha spinto.

Succede che è un periodo strano, ma d’altronde non c’è quasi mai stato un periodo normale… quindi che cacchio di stranezza c’è?! Boh, forse è solo strano in modo diverso da prima. Quindi: ottimo! Non ci si annoia.

Capita io capisca cose (emmenomale), capita ne scopra altre (eddaje) e capita io continui a essere il solito pirla (vabbeh, che novità). Ma capita sempre più spesso io mi senta di dover giustificare azioni o pensieri o scritti. E non so se sia l’età (con il crescere aumentano le responsabilità, ok, ma all’infinito?! Intendo, io credevo che le responsabilità funzionassero come un interruttore: il pupo non le ha, l’adulto se le ritrova. Invece pare siano la manopola del volume, più avanza l’età, più sono assordanti), non so se sia il periodo storico (non credo ci sia una crisi dei valori, credo che, semplicemente, si seguano dei valori egoisticamente individualistici) o, come sempre e come è naturale, una commistione dei due (e magari mille altri fattori che non so contemplare).

Fa ridere, non c’è dubbio, ma non mi piace pensare che la Disney abbia rovinato generazioni di bambini che crescono sperando e poi rimangono delusi dalla realtà; sono più convinto che le favole esistano da sempre e che da sempre tentino di insegnare al mondo cosa andrebbe fatto, cosa sia meglio e come si debba tentare di essere, perché il mondo stesso sia migliore. Ultimamente, invece, si tende a pretendere. E questo mi sta in culissimo.

E una cosa che mi si presenta spesso ed è una piccola costola di questo atteggiamento, è una cosa che sto imparando ad accettare, perché, in fondo, non è totalmente negativa, nel mio seguire la virtus che sta in medio, questo è semplicemente un ricordarti di star nel medio. A volte mostrandotelo.

E c’è un’amica che m’ha riempito di un sacco di cose splendide, m’ha fatto sentire di provare ancora molto… e m’ha rimesso al mio posto, quando mi son lasciato prendere dal tutto. Grazie di rimanermi amica. C’è un diamante che crede io sia ladro e avido e insistente, ma non ha capito che non son tipo da apparenza, che tra un diamante e una canzone, preferisco la seconda. E c’è il continuare a riempirmi di momenti, per sentire tutto quello che posso.

Sabato è stato così.

Dopo che Ani DiFranco m’ha emozionato così, c’è stata questa bambinetta.

S’arriva in un festival, si parcheggia e si scarica, si ride, si mangia. Un furgone a noleggio ci parcheggia vicino. Scendono i soliti musicisti, di quelli che sai che lo sono. Poi scende anche una ragazzina, tedescoide, capello semi.corto. I soliti musicisti, ti ripeti. Poi te ne dimentichi, finché parte il loro sound check. Ti intriga il beatboxer, ma senza vedere chi faccia cosa, pensi che la voce di lei, sia un coro, una di quelle cose che riempiono.

Ma poi partono e sono potenti, divertenti, vivi e vissuti. Bravi, non eccelsissimi, ma sinceri. Ti chiedi come mai lei ti ricordi tanto un paio di amiche che hai conosciuto e ti accorgi che, come spesso si dimentica, non siamo poi così differenti. Tutti, intendo. La realtà sa sorprendere ed è infinitamente varia, ma gli uomini sono poco fantasiosi e ci si mette su binari che, con piccole deviazioni, sono più o meno sempre quelli. E non è un male, è confortevole, da sicurezza, fa piacere. Quelli che deviano troppo li chiamiamo pazzi e li allontaniamo, di solito. Io li amo alquanto perché nel mio stare nel mezzo, mi fanno stare bene, sono confortevoli, danno sicurezza e mi fanno piacere.

E Wallis Bird sta lì nel mezzo, tra quelle che sai come sono e quelle che ti sorprendono. Passa tutto il concerto a ridere, sorridere, correre, farsi prendere, rasentare la spocchia di chi È ARTISTA, ma subito planare in quell’estro che ti fa sembrare una scimmia urlatrice che batte sulle corde della chitarra (l’ha fatto, lo giuro… eheh). E poi pensi che è la solita musica, c’è a chi piace e a chi no, magari due o trent’anni fa ti avrebbe fatto schifo, ma ora sei lì e ti godi il concerto… fanculo. E poi ti stronca.

Giuro, m’ha stroncato.

Dopo tutto quel cacchio di show, si ferma tutto e ti posa questa, come saluto.

E tu non te la togli dalla testa per 3 giorni filati. Tanto che non vedi altra soluzione (soluzione?! A che?! Perché?!) che condividerla e tentare di spiegare cosa sia, quanto grande e preziosa sia, quanto effimera e inutile e quanto tanto altro.

Vabbeh, è lì. Io me la dimenticherò e me la ricorderò e la riscoprirò. L’ho vissuta. Se fa qualcosa anche a te, son contento. Che tanto ci importa solo di noi. E più ci stiamo addosso, meno abbiamo l’uno dell’altro. Importa non lasciarsi vuoti e tenerci (in tutti i sensi).

Fare i post in memoria di qualcuno, m’è sempre parso come cavalcare l’onda e rubar notorietà, ma visto che non andrò a sperticarmi in lodi o giudizi o analisi o altro, penso scivolerò miseramente dalla tavola, senza far nemmeno un po’ di tunnel.

Il Bradbury se n’è andato e m’ha fatto urlare un “no” in auto, quando l’ho saputo. Anche se non so se credere in aldilà, legami, spiriti e cose così, spero che l’abbia fatto sorridere e un po’ arrossire, che uno in più lo rimpianga.

Forse è stata la prosa semplice e diretta, forse è stata l’età e l’avidità con la quale ho letto il suo Farenheit, ma è stata incredibile l’influenza che ha avuto nella mia adolescenza. Forse è per questo libro, che ora ne ho un sacco. Forse è per questo libro che mi spiace dimenticarmi trame, battute o autori. Ma forse è grazie a questo libro che ho imparato ad aver cura.

Ho imparato a trattare i libri come le persone e viceversa.

Ho testimoni che m’han sentito urlare, in treno, per un amico che m’ha preso un libro e l’ha aperto del tutto, l’ha ribaltato e ha stretto la spalla per legger meglio una pagina… ok, questo non mi fa onore, ma era giusto per dire che anche con le persone, mi piace leggerle, scavar dentro e mangiarle, ma disturbando il meno possibile. Se le spalle sono intonse dopo il mio passaggio, io son più sereno.

M’ha insegnato a condividere e a comprendere l’importanza del dialogo, dell’aprirsi all’inaspettato e del non smettere mai di fantasticare. Le cronache che parevano assurde e contenevano tutta la normalità dell’animo umano, che scavavano nelle paure e le mostravano poche, insulse, dozzinali e stupide.

Grazie Ray, per quel che vale, sono uno in più che ti ricorderà.

Scoprirsi ancora capaci
di perdere il fiato per salti,
immagini e idee.
Tuffarsi nel tempo spettro
che steso si lascia nuotare.
Dimenticare d’essere altro
per paura di non essere qui,
mostrandosi semplice uno
sfrondato dei centomila.
Nessuno,
ma parte.
Annaspare per non perdere sguardi,
assecondare slanci e ridere calmo,
annuire e applaudire.
Esser parte.
Far verso a frasi su simboli,
di brevi che mai saranno.
Correre pensieri altrui,
sorridendosi simili,
stupendosi diversi,
comunque noi.
Comunque io.
Immergersi in stanze, giardini, palazzi,
persone, forze e odori;
non sapere e temere,
sorprendersi in torto
e convenire.
Accettarsi.
E il contrario.
Difendere altrove,
spegnendo fuochi vacui
di colossi di vapore
svelti di spada
e poveri di pensiero,
impauriti d’ammettere
il senso che ritrovi lottando:
d’esser bambini che giocano a vivere.

Ieri non lo dicevo per far quello “forever alone” a san Valentino che, nel più pieno del volpeuvismo, ti tira fuori la ficcante verità. No, io lo dicevo perché calzava bene, come chiusa di un pensiero. Era asciutta, realistica quel tanto che basta.

Ma, vaffanculo, non deve essere così.

E non lo dico nemmeno da quello che torna ora dal cinema da solo (andare al cinema da soli è una cosa bellissima, tranne quando vai a vedere bei film dolci e da vivere insieme, in serate in cui il cinema è pieno di umanità (dall’imberbe all’ottuagenario) che si ciccipuccia e commenta e mormora e sottolinea e vive ogni scena e oltre; e tu hai quel groppo latente che stringe e stringe… ecco, in quelle sere manca una mano da stringere o mignolare, o uno sguardo da sorridere condiviso o uno scambio d’opinioni camminato verso l’auto e poi concluso a vetri appannati e al terzo sbadiglio davanti a casa di lei), perché Jane Eyre non ha fatto altro che rinfrancarmi il pensiero che io stia bene con i miei ricordi e che anche questo periodo sia quanto serva plumbeo e ruvido, per farmi respirare fresco, quando uscirò dall’acqua. Perché il tempo, purtroppo o per fortuna, ci fa quasi sempre uscire dall’acqua.

E quindi non voleva essere il livido commento d’un insoddisfatto, la lamentela d’un rifiutato, la spocchia d’un superiore. Tutt’altro, voleva essere un limite riconosciuto, uno di quei cacchio di gradoni d’erba e mattoni che ti porti dietro dall’infanzia: “e se avessi avuto il coraggio di saltare?!” passi la vita a chiederti. Sai per certo che se avessi preso tutto il tuo coraggio e ti fossi lanciato, ora sapresti saltare da ancora più in alto, senza quelle vertigini che ti attanagliano.

Ma io sono per accartocciare i rimpianti e buttarli nelle celle sotterranee della memoria, in quelle stanze in cui già digrignano i denti i rimorsi e nelle quali non voglio più tornare. Perché puoi forse dire d’aver visto la vita, se non ne hai almeno uno, di quei loschi inquilini?! No… ma se non vuoi fermarti a sprofondare nelle sabbie mobili del passato, devi lasciarli indietro a marcire soli, devi guardarli da lontano e sapere che presto o tardi darai loro dei compagni, ma che se pian piano imparerai, saranno sempre meno.

E quindi devi combatterlo, quel pensiero del cercare sempre qualcosa di diverso in chi hai di fronte. Ha il cacchio di vizio di metterti in disordine i libri?! Tu mettigli in disordine i cd, ma fallo col sorriso che avevi oggi, quando t’ha dato la prevedibile, ma sempre “piega testa” rosa e un regalino che “non è tanto, ma è perché non fa mai male ricordartelo”. Se non è più quell’intrigante matto che ti faceva ridere, prova a pensare quanto lo stimolavi di più, quando anche tu, per lui, eri tutta da scoprire. E prova a pensare tu, quanto non sei cambiata, in tutto questo tempo… eppure lui ti ama ancora.

Come in tutto, è una questione d’equilibrio… ma l’equilibrio è una palla, quando diventa stasi. Hai mai provato a giocare sui rami o sulle corde?! Stare dritto su quel braccio che ti sorregge, del quale impari la forza e dal quale impari a non cadere. Arrivi al momento in cui l’onda sta per diventare quiete, che hai quell’istinto immane a dare forza, sconvolgere, ribaltare, tornare a sorridere tanto quanto è forte la paura di cadere. Ecco, quello è bello in due (o anche di più, se ti piace).

A volte è tanto triste che non si respira, a volte è tanto piccolo che non ci pensi, ma tutto quanto sfarina nell’impasto di quel che sei. E sono certo che quello che vorrei tu fossi, è sicuramente meno splendido di quanto m’ha sorpreso tu sia.

E finirà sulla catasta di post che appaiono “buonisti” a tanti di quei pochi che mi leggono (sempre mi leggano ancora… in effetti non c’è poi molto da leggere, ultimamente, ma è sempre un bel gancio, il lamentarsi… eheh), ma corro ugualmente il rischio.

Io c’ho sempre quella cosa che unisco i puntini, non ho una mente superiore, ma ho una mente logica (che poi sia una logica un po’ tutta mia, è un altro discorso); non ho una gran memoria, se non per le stronzate (tendo a trovare risposte sulla vita, l’amore e le vacche nei dialoghi del film Clerks); non sono saggio, peso le cose.

E quindi se un camion mi entra nella rotonda a tutta velocità, perché mi vede che sto arrivando a 90 all’ora, ma comunque quei dieci millimetri più tardi di lui; se tra i mille feed, mi viene condiviso questo condivisibilerrimo post; e se me ne viene condiviso un altro che di primo acchito mi pare andare verso il giusto, ma poi mi fa storcere il naso… io unisco i puntini.

Mi viene da pensare che il soggetto del post condivisibile abbia tutto quel successo, perché ha una personalità e una maleducazione comuni a una grande maggioranza degli italiani (mi spiace, non è un vanto o un privilegio, non so nemmeno io cosa sia… ma reputo comunque più rispettoso, il mantenere un comportamento educato per il maggior tempo possibile). Uno che mi passa davanti perché vuole dimostrare a nessun altro se non a se stesso, di “valere più di me”, è un maleducato, un po’ sbruffone e a rischio idiozia, visto che mette un po’ a repentaglio l’incolumità altrui. Uno che alza la musica in un luogo in cui, per il rispetto della degenza, viene richiesto di moderare anche il tono vocale, lo è altrettanto. E con uno scarto mentale minimo, a me viene da pensare che quell’ultimo pensiero del post-storcinaso, non sia altro che espressione di quella pancia, comune a tanti.

Comprendo benissimo di non vivere in un mondo utopico, so perfettamente di avere una fortuna incommensurabile nel fare un lavoro che mi piace e che mi stimola, ma non reputo vero, condivisibile o anche solo giusto, pensare che “il tempo che dedico al lavoro deve essermi pagato tantissimo, perché è tempo rubato a me”. Finché parliamo di “pagamento” in “soddisfazione” e poi c’aggiungiamo il denaro, posso anche capire, ma se tu pretendi che “altri” ti debbano pagare tantissimo, perché ti stanno strappando a qualcosa che tu faresti meglio, con più entusiasmo, più serenamente PER TE… cagati in mano e applaudi.

(senza essere offensivo, è l’insulto che utilizzo più spesso, perché ho questa fissa che una cosa, se fa più ridere, è meglio)

Non voglio essere considerato tra quei despoti che pensa: “nessuno è indispensabile, chiunque è sostituibile”, con una generalizzazione (le mie beneamate…) che esclude a priori chi la pronunci. Tutt’altro, parto dal presupposto opposto, tutti siamo indispensabili per qualcuno, nessuno è sostituibile per qualcuno, ma è proprio questo legame sottostante, che porta valore al singolo, alla massa e all’esistenza (minchia, mi sto un po’ allargando).

È questo, secondo me, il punto da cui bisognerebbe partire, sia nelle rotonde, sia nelle canzoni e nelle parole, sia nel lavoro e nella considerazione di sé: io non sono nulla, ma devo costruire tutto ciò che posso, per far star bene la o le persone cui tengo. Questo è il mio miglior modo, per star bene (che poi non ci riesca quasi mai e abbia turbe psichiche, è un altro discorso).

Quindi non penso che sparirebbero gli incidenti, se le persone fossero più altruiste (se uno ti inchioda davanti per far passare il vecchietto col cappello, tu gli vai nel culo…), non penso si vivrebbe meglio, se tutti fossimo educati (non sapremmo più chi scegliere, prima o poi, da tenerci a cuore… che è un po’ il senso di quel poco che chiamiamo “tutto”), non penso andremmo molto lontano, se tutti facessero il lavoro che piace loro; penso solo che l’egoistico credere di valere più degli altri, sia la lente sbagliata, per guardare il mondo.

Tu hai quel merda di camion che mi spappolerebbe, se mi venissi addosso, e che mi fa tossire per ore se ti sto dietro, con lo schifo che sgasi: non fare lo sbruffone, ché nel bilancio dei legami, hai una persona in più che ti guarda cagno! Tu hai avuto successo, donne, soldi e persone che ti amano, accontentati, non andare oltre, pretendendo di dare l’esempio giusto “fregandotene”, perché ci sarà sempre qualcuno migliore o peggiore, che di te se ne potrebbe fregare con maggior successo, non facendo altro che quello che hai predicato… e le persone prima o poi, come tutto, finiscono… e finiscono per mettertelo nel culo.

Tu, invece, che ti rattristi perché sviliscono il tuo lavoro, non pensare di valere “tantissimo”, pensa solo che farlo al meglio sia il tuo traguardo, il grazie più grande, l’unica ricompensa. Stai guardando dalla parte opposta! Se tu insegni a dei bambini, chiedi a loro se il tuo lavoro è stato buono, non chiedere più soldi a chi fa un altro lavoro, che si trova soltanto nella tua stessa posizione, ma si sente trattar male, perché c’hai la pms. Non è la pagiuzza tua e la trave mia, è il semplice fatto che se credi valga tanto il tuo tempo, vai a fare il cazzo che vuoi, se è così “tantissimo”, ti verrà riconosciuto; se invece ti ci impegni tantissimo, nel tuo lavoro, e ti viene riconosciuto poco, allora sì: “blame them all”, e tieniti la tua magra, ma pur sempre unica e insostituibile, consolazione di aver dato il meglio di te. Prima o poi arriverà un tuo studente, suonerà quel campanello, la tua badante aprirà la porta e tu scoccherai il sorriso che varrà più “tantissimo” di tutti, quando lui ti abbraccerà con il solito e splendido: “Sa prof? Aveva proprio ragione…”

Che avessi sta roba agli occhi, ormai, si sapeva. Son quattro o cinque anni che ad ogni esame mi dicono “ce l’hai”, come all’asilo e ogni anno mi toccano per ricordarmelo. Quest’anno, per la legge dei grandi numeri, è capitato che è saltata la puntina.

Ci sarebbe gente pronta con gli avvocati e tutto quanto, ma sarà che tutte le oculiste che m’han visitato erano bellissime, a me che abbiano sbagliato l’ultimo esame, importa poco. Intendo, m’han fatto 5 fotografie uguali e poi la sesta è venuta mossa. Capita. Ci si è spaventati un po’, ma poi passa tutto e ci si ghigna su.

Dopo la visita preliminare della scorsa settimana, quella di routine con le gocce sbarellanti, che a guidare mi sentivo Homer sotto l’effetto dei peperoncini allucinogeni, stamattina sono andato a farmi analizzare un po’ meglio. Servon macchinari un po’ sofisticati: per una malattia rara, servono pennelli rari.

Entro nella clinica milanesa, parquet, poltrone in pelle e tutto bianco, segretaria carina, oculista carina, assistente carina, medico-manager molto carino, chirurgo alto e belloccio, sempre di corsa. Mi si fa accomodare e penso: “ho lasciato il libro in macchina”, ma faccio in tempo a scrivere un messaggio e farmi un po’ i cazzi dei ricconi che c’erano di fianco a me, prima di sentirmi chiamare dall’assistente. Gentili e carine, mi fanno due esami, una roba piena di cerchi concentrici rossi, poi quella con la casetta nel prato, ma questa ha più dettagli, alberi a più profondità e siepi e colline.

Torno in sala d’attesa, mi risiedo mezzo minuto e vedo passare il mio referto in una cartella bianca, s’apre la porta del mio dottore e vengo chiamato. Spiegazione di come siano più precise queste analisi, di come sia stato possibile l’errore dell’ultimo esame, analisi delle possibili diagnosi, postulazione di un piccolo dubbio. “Vorrei chiedere il parere del chirurgo, è più esperto di me in questa patologia, si accomodi un attimo”.

Alla terza volta non ho nemmeno posato le chiappe sulla poltrona :), il chirurgo mi chiede di entrare nello studio, gli porgo le analisi e dopo 5 anni che mi dicono “hai il cheratocono”, questo osserva 5 secondi le analisi e dice “gli farei un orbscan, possibile pellucida” e se ne va, like a boss.

Stavolta non mi si dice nemmeno di sedermi, vado dritto dalle ragazze. Mi fan sedere davanti a un altro macchinario, stavolta i cerchi son giallo-arancioni e l’analisi è più approfondita ancora.

Altro consulto tra esperti, non faccio ancora in tempo a passare il calore dalle chiappe alla poltrona che: “Savogin!”. Mi siedo e con un fare bellissimo, o forse così sembra a me, il mio dottore mi dice: “ci son buone notizie, non dobbiamo andare a Bologna”, che significa che non dovremo chiedere all’esperto se spatolarmi gli occhi o strapparmeli, ma in un angolo remoto della mia anima mi chiedo: “queste son quelle buone… quelle cattive?!”.

Capita anche che quelle cattive non ci siano, a volte. E pare che io sia il prescelto, stavolta.

Non ho il cheratocono, ho la degenerazione marginale pellucida!

Vista la presenza di altri pazienti, mi si rimanda a capire cosa sia su internet, mi si consiglia una lente a contatto speciale e mi si dice di tornare fra un annetto per il controllo di routine e per vedere se peggiori.

Io, al solito, son lento, e le cose le realizzo dopo. In quel momento sono a otto metri da terra e penso a cose soffici e dolci e carezzevoli e dissetanti e… Penso anche che quasi mi spiace non essere più malato, mi ci stavo abituando all’idea del ballottaggio tra interventino e interventone, che avere una malattia rara ti fa quasi sentire speciale. E penso che c’è un detto, qui da noi, che calza a pennello: “set bon de cagà e gh’è piò da merda”, che più o meno si capisce e dà l’idea dell’esser finalmente arrivati al momento clou e rimanere a braghe calate per nulla.

Volicchio tra le cose che succedono tra me e l’ufficio, guido senza accorgermi, mangio sorridendo anestetizzato e parlando coi colleghi, poi finalmente leggo la spiega su internet e capisco il perché di un piccolo siparietto all’uscita dalla clinica. Il mio medico mi dice che per quanto lo riguarda, non vuole un centesimo, perché è più importante la fiducia e quindi non è uno che manda al macello le persone perché ci guadagna (quanto lo amo), ma mi dice di chiedere alla segretaria per il pagamento degli esami speciali. Mentre mi avvicino al bancone, la ragazza bellina mi guarda come uno yeti, senza battere le ciglia e muovendo solo le orbite, pronta a fuggire o urlare ad ogni mio movimento inconsueto. “S-siamo… siamo a posto c-così… a-arrivederci” (che detto in una clinica oculistica è un ottimo auspicio, a pensarci bene).

Insomma, ho scoperto che se prima pensavano avessi una malattia rara, ora sanno che ho una malattia SCONOSCIUTA! :):):):)

Un po’ come i pezzi d’antiquariato, ci sono gli oggetti comuni che hanno un valore, quelli non comuni che valgono di più, poi quelli rari che sfiorano il ridicolo e poi i pezzi unici… ecco, io non son nessuno di questi… eheh. In realtà la spiega ufficiale è che l’eziologia è sconosciuta, che non significa che su tutte le persone che si chiamano Ezio non è mai accaduto, ma che non si conoscono le cause della malattia. E se non si conoscono le cause, le cure sono un po’ come sparare col mortaio per uccidere le zanzare, o pulire il monte Bianco con una salviettina.

Poco importa, rimane il fatto che respiro più tranquillo, che stanotte recupererò il sonno perso ieri notte (non sono il principe di Condè) e che tutto è bene quel che si rimanda bene.

Mi rimane un’unica domanda di pura logica, però: COME CACCHIO SI FA AD AVERE UNA COSA SCONOSCIUTA?!

Dovrebbe esser semplice, perché a una certa età uno ha visto e vissuto tante cose, quindi c’arriva. Ma forse è anche quello il bello e il senso della cosa. La totale incertezza e l’incapacità d’affrontarla, rendono l’esperienza ancora più perfetta. A volte fa male, ma è tutto parte della sfera.

Tu sai che quel viso è troppo bello per sorriderti, quindi ti sorprende lo faccia. Sai che chi ha quello ed è così, spesso non riempie quel bello di altro, oppure pretende, oppure ci gioca, lo sfrutta; quando poi ti trovi umiltà o reale modestia, non puoi che scioglierti in calore sorriso.

Ho sempre avuto problemi a scindere bellezze. Mi son sempre trovato ad amare persone piene, fossero esse belle, brutte o medie, poco importava. Ho sempre apprezzato la bellezza, certo, l’uomo saccheggia continuamente la realtà e l’occhio vuole la sua parte; c’è sempre quell’istinto che porta a dare troppa importanza a questo particolare, ma la natura e l’esperienza m’hanno portato a imparare.

L’esperienza m’ha fatto capire quanto si possa perdere, nell’ordine d’amicizie, sostegno, fiducia e pace, per un egoistico prendersi tutto.
La natura m’ha regalato un sistema immunitario strano, ma che mi piace.

Per prima cosa, nessuno è di nessuno, se non di se stesso (e forse nemmeno, se vogliam esser spirituali); poi la fiducia è un legame importante e rispettarlo va oltre ogni istinto, visto che siamo umani dotati di raziocinio; l’amore e il sesso son due cose distinte, permeabili, ma distinte, entrambe non dovrebbero far male a nessuno, ma solo la prima è così importante da  poter giustificare il male; la bellezza, se non supportata da intelligenza, cura, attenzione o apertura mentale, è caduca e vuota, ma soprattutto non vale l’amore; le aspettative non devono mai perdersi in picchi troppo alti, ma esser sempre di peso concorde a ciò che si dà, siam fatti per deludere, dobbiamo combattere contro questa natura.

Ovviamente non c’è nessuna verità universale, son tutti piccoli passi che seguo, nemmeno troppo bene e nemmeno sempre. Quando ci riesco, me li ripasso e mi ci impegno. Tanto questo è un terreno di gioco infido e si traballa sempre, rompendo giustamente le regole e creandone di migliori. Ogni cosa evolve per natura, mi piace pensare che debbano estinguersi quelle errate o inadatte e debbano prosperare quelle buone e positive.

Sogno, lo so. Ma sempre più spesso mi chiedo che male ci sia ad abbellire ciò che si ha, per gestirlo al meglio, per rendere accettabile quel che c’è di brutto. Sei seduto o sdraiato con qualcuno che merita carezze o abbracci?! non smettere di farne, finché pesa giusto; una persona ti si rivela bella o migliore di quanto non avessi ancora visto?! diglielo, faglielo capire, non fa mai male un rinforzo positivo; quel che succede tra voi non è o non è più quel che speravi?! prendi quel che hai e conservalo, ricordalo, traine forza e non distruggerlo, c’è chi non ne ha mai avuto.

E non dico “è tutto bello”, “sorridiamo” e “vivadio”, non ci credo. So perfettamente che esiston brutture, dolore e peggio, ma quando qualcuno merita il meglio, è giusto impegnarsi per darlo, quando qualcuno non è degno che del peggio, si può evitare di infliggerlo, per dimostrar d’esser migliori, oppure si può evitare la socialità che è pur sempre riconoscimento di merito. Una persona sola, potrà pur sentirsi migliore di tutte, ma non sarà mai felice quanto quella eletta migliore ad abbracci fraterni.

A male si risponde con meglio, per pura pace personale. Ama le persone migliori, le altre buttale a mare. Amare, a volte fa male e fa fare del male. Dal male bisogna fuggire, per circondarsi di persone affini, migliori e che invoglino a dare, ad essere e ad amare. Amale.

Io c’ho sempre in testa quell”‘ok” che mi viene da dire a chiunque mi piaccia. E poi, invece, mi accorgo di notare tutti i lati brutti delle persone che ho intorno, e mi ci impunto, perché non mi è “ok” che faccian quel che vogliono senza rispetto.

Io, quando lo provo e lo sento, non riesco mai a far capire appieno che allargare le braccia, stortare la bocca in un quasi sorriso e un quasi “perché no?!” e poi ridepiangere, è la risposta a quasi tutti i “perché” che ci infliggiamo.

Siamo noi che tendiamo a rovinarci la vita. Tra di noi, con noi. Noi stessi e gli altri.

Io non ho la risposta e non pretendo d’averla. Non son mai riuscito a pensare come fanno tutti che: “se al mondo tutti fossero come me, andrebbe meglio”. Tutt’altro, sarebbe una gran palla (son convinto che questa sarebbe la situazione anche se tutto il mondo fosse come Gandhi o Einstein… si finirebbe per esser tutti uguali e nessuno spiccherebbe o nessuno accetterebbe gli altri, ma vabbeh).

Mi piace pensare che la diversità sia il motore del cambiamento stesso. Vorrei tanto esser sempre ricettivo e pronto a migliorare, imparare e aiutare. C’è bisogno di conoscenza statica e di impulsi dinamici, per costruire cose solide, sempre in evoluzione. C’è poi il bisogno fisico di fermarsi, ogni tanto. In questo periodo sento la stanchezza, quindi mi accorgo di non esser sempre pronto ad accettare. E me ne dispiaccio.

Mi spiace anche non poter rispondere a tutti quelli cui vorrei, scrivere a tutti quelli cui tengo a ribadire i miei grazie, riappiccicare domande, sdraiare risposte e porgere scuse (sempre doverose). Ma forse è il caldo, o forse che non reggo più una sbronza di limoncello e me la porto dietro per una settimana :).

Rimane che quando io ho il mio tempo, ho il mio spazio, ho quel che mi basta (non serve… basta), non so che guardare la pelle, i capelli, i pensieri, le lacrime e il cuoreanimacervello di qualcuno e rimanerne incantato. Hai idee diverse dalle mie?! Ok… Hai bisogni differenti?! Ok… Hai principi discordi?! Ok…

E non per appiattire tutto e non considerarlo, ma per affrontarlo giusto, prenderlo bene e non farne colpa (che non è mai reale o semplicemente utile). Siam somme di pesi e caratteri altrui, siam costrutti infiniti e infinitesimi di reazioni a tutto, siam nulli e fondamentali. Non ci sappiamo capire, ma ci prendiamo troppo sul serio.

Vorrei sempre avere la pace dell'”ok”. Spiace non poterla vivere ogni giorno.

Ci provo.