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Category Archives: scrittura

Ho sempre pensato che un regalo vero, dovesse essere qualcosa di fatto da te, con le tue mani, con la voce… con il corpo. Ok, compro un sacco di roba, in giro; accumulo mucchi di pensieri che, prima o poi, metto nelle mani di chi me li ha ispirati. Ma c’è quel qualcosa che, quando lo crei tu, un regalo sa di diverso. È più vero.

E io non ne ho fatti tanti, di regali veri. Non perché non volessi, anzi, ci provo sempre, ma è che non ho la capacità e la costanza di arrivare fino in fondo. Mi si sciolgono in futilità e mi sento ridicolo.

Quando le forze mutuate, però, ti alleggeriscono il compito e tu ti trovi che dopo un sacco di anni, hai ancora nel petto un sasso, ecco… lì arriva che la forza si mette a gravitare attorno al sassolino, e ci aggiungi un punto di vista che non avevi mai contemplato fino in fondo, aggiungi che ti suona più facile con quelle parole, aggiungi che la musica si presta, aggiungi che vuoi dirlo, vuoi che si sappia, vuoi che tutti sentano che ricordi.

E ci riesci… cacchio… non ci speravi nemmeno più.

Viene fuori come tante altre cose, ma tu sai che l’hai fatto con un qualcosa di diverso, dentro, che aggiunge significati ai significati. Non sta nel soggetto o nell’emittente, nemmeno in chi l’ascolta, forse, ma in tutti e in nessuno, il significato… lo sai tu e lo sa chi riceve il regalo.

E quando ti ringrazia pubblicamente… puoi anche smettere di respirare.

Fare i post in memoria di qualcuno, m’è sempre parso come cavalcare l’onda e rubar notorietà, ma visto che non andrò a sperticarmi in lodi o giudizi o analisi o altro, penso scivolerò miseramente dalla tavola, senza far nemmeno un po’ di tunnel.

Il Bradbury se n’è andato e m’ha fatto urlare un “no” in auto, quando l’ho saputo. Anche se non so se credere in aldilà, legami, spiriti e cose così, spero che l’abbia fatto sorridere e un po’ arrossire, che uno in più lo rimpianga.

Forse è stata la prosa semplice e diretta, forse è stata l’età e l’avidità con la quale ho letto il suo Farenheit, ma è stata incredibile l’influenza che ha avuto nella mia adolescenza. Forse è per questo libro, che ora ne ho un sacco. Forse è per questo libro che mi spiace dimenticarmi trame, battute o autori. Ma forse è grazie a questo libro che ho imparato ad aver cura.

Ho imparato a trattare i libri come le persone e viceversa.

Ho testimoni che m’han sentito urlare, in treno, per un amico che m’ha preso un libro e l’ha aperto del tutto, l’ha ribaltato e ha stretto la spalla per legger meglio una pagina… ok, questo non mi fa onore, ma era giusto per dire che anche con le persone, mi piace leggerle, scavar dentro e mangiarle, ma disturbando il meno possibile. Se le spalle sono intonse dopo il mio passaggio, io son più sereno.

M’ha insegnato a condividere e a comprendere l’importanza del dialogo, dell’aprirsi all’inaspettato e del non smettere mai di fantasticare. Le cronache che parevano assurde e contenevano tutta la normalità dell’animo umano, che scavavano nelle paure e le mostravano poche, insulse, dozzinali e stupide.

Grazie Ray, per quel che vale, sono uno in più che ti ricorderà.

Scoprirsi ancora capaci
di perdere il fiato per salti,
immagini e idee.
Tuffarsi nel tempo spettro
che steso si lascia nuotare.
Dimenticare d’essere altro
per paura di non essere qui,
mostrandosi semplice uno
sfrondato dei centomila.
Nessuno,
ma parte.
Annaspare per non perdere sguardi,
assecondare slanci e ridere calmo,
annuire e applaudire.
Esser parte.
Far verso a frasi su simboli,
di brevi che mai saranno.
Correre pensieri altrui,
sorridendosi simili,
stupendosi diversi,
comunque noi.
Comunque io.
Immergersi in stanze, giardini, palazzi,
persone, forze e odori;
non sapere e temere,
sorprendersi in torto
e convenire.
Accettarsi.
E il contrario.
Difendere altrove,
spegnendo fuochi vacui
di colossi di vapore
svelti di spada
e poveri di pensiero,
impauriti d’ammettere
il senso che ritrovi lottando:
d’esser bambini che giocano a vivere.

Oggi Kaki m’ha riaperto. M’ha sezionato, mescolato e poi rimesso lì a raccattarmi i pezzi, rimetterli in sesto e cercare di dar loro un senso.

Mentre la guardavo suonare, mentre pensavo a quanto fosse bella (“I’m ok with my genetics, but don’t take pics of my nostrils!”) e mentre mi bacchettavo per il mio eterno secondo pensiero: “la bellezza non deve influire sul giudizio”; lei m’ha di nuovo spiazzato. Come quelle splendide epifanie che ti confermano certezze latenti, che ti chiariscono verità solamente intraviste e ti fan respirare nuovo.

Fanculo… è bella!!!

Il tutto nasce dal fatto che quella donna ha delle mani incredibili, che fanno cose incredibili e dietro di loro c’è una mente assurda che le porta a muoversi così e battere e pizzicare e pigiare e spingere e tirare e nuotare e saltare ed esplodere e carezzare. Lei è tutto quello e tu la catturi, la prendi per quanto riesci, la trattieni fino a dove le tue mani arrivano. E poi le costruisci attorno una versione di lei che è tua e che serve a te, che per te ha valore e che ti aiuta a capirla a viverla e ad ammirarla. Hai la tua proiezione di Kaki nella testa. E questa Kaki è quella che suona incredibile e ti fa provare cose incredibili e che ti fa vedere mondi incredibili ed è tutta eterea e stralunata.

Poi lei ti dice che oggi è andata a fare shopping e c’erano delle scarpe stupende e che avrebbe dato qualsiasi cosa per averle, ma che ha tentennato e non voleva spendere tutti quei soldi per delle semplici scarpe. Ma il pensiero che fossero le scarpe più belle del mondo e che avrebbero potuto essere sue, l’ha fatta decidere e quando è tornata al negozio… era chiuso. E fanculo al destino, lei non ci crede, quelle cazzo di scarpe erano fatte per essere sue e non aveva colpa o merito nessuno, se non lei e il suo modo di essere.

L’ha detto anche lei: “che magari non mi vedete come il tipo di persona che dia peso a queste cose, ma queste cose hanno un peso e quelle scarpe avevano scritto il mio nome sopra… fanculo”.

E quindi lei, come tutto, come tutti, ha quel lato splendido che è la sua mente musicale, l’anima artistica, le mani di vento e pioggia, quel nervoso armonico che sfocia in musica. Ma ha anche un fare assurdo, ha anche un ciuffo che cade perfetto, ha anche un viso armonico, un corpo armonico, una voce armonica e un sorriso armonico. È bella. Punto. E magari domani ha la sua giornata peggiore della storia, magari fra cinque minuti spara a qualcuno, ma questa sera, come tante altre volte, m’ha fatto vedere che è l’armonia dei pesi la via giusta.

Quel che va perseguito non è il bene assoluto, le utopie felici non sono attuabili e nemmeno giuste, perché deludono sempre. L’uomo è naturalmente un miscuglio di mille forze, non serve snaturarlo e crederlo migliore di quanto sia. Va accettato e incanalato verso il bene possibile, verso l’utopia abbordabile. C’è l’amore e ci son le caccole, c’è Vanzina e Aronofsky, c’è Hoeg e Moccia… non esiste un meglio oggettivo, siamo tutti soggetti, bisogna solo imparare nuovamente ad accettare e non allontanare. Credersi migliori perché si ascolta musica colta, non è giusto tanto quanto pensare che un film al cineforum sia palloso a priori.

Siamo troppo abituati a sentirci in dovere di auto-confermare la nostra attendibilità, ci sentiamo obbligati a giustificare le nostre azioni per renderle accettabili; quando in realtà dovremmo preoccuparci di ascoltare, guardare, leggere e vivere, per non cadere in presunzioni che feriscono. Creare quel che si può, nel miglior modo a noi possibile… se si è nel giusto, importa poco il riconoscimento. Se a una donna piace una donna soltanto perché è bella e questo le basta, che l’ami, che viva quell’amore al meglio. Punto. Se si crede nell’amore e nel romanticismo, che si cammini per chilometri nella neve per portare un fiore, ma si ammetta di guardare il culo delle ragazze e di sfogarsi in solitaria.

Bisogna semplicemente ammettere di essere umani, per essere esseri più armonici.

Ovviamente sarà una mia turba psichica, ma non capita anche a te d’aver bisogno d’ordine? Non sono certo una persona ordinata, forse un po’ metodica, ma son più lento e iterativo, piuttosto che precisino. Ovviamente per la mamma si è disordinati anche quando si è autistici, come per gli amici viziati si risulta quadrati anche quando ci si dimentica di prenotare il pranzo del proprio matrimonio.

Ma io, nelle cose che amo, ho bisogno d’ordine. E forse l’ho bisogno per trattenerle più a lungo, per farle mie, per avere l’illusione di saperle o poterle gestire. In realtà è, appunto, un’illusione per il semplice fatto che, tranne quelle poche ossa, non si possiede poi molto altro, in questa vita. Forse ho bisogno d’ordine perché altrimenti non riesco a star dietro almeno a quelle, di cose della vita. E quindi se i miei CD non sono in ordine alfabetico, io, un po’, non ci dormo.

Ma visto che i solipsismi portan spesso a derive fuorvianti e visto che è un periodo che mi ballan le ginocchia e non so perché, è bastato che un amico speciale mi dicesse un “no…” sorriso, perché io non riuscissi più a tenere in braccio le quattro certezze, e finissi a cercare di tenermele vicine coi piedi o con la bocca.

“Io nella mia libreria avrò l’ordine alfabetico…” stavo dicendo, già bello tronfio e gongolante, pronto a dare la scoccata finale con quella mia intuizione pari a tutte le mie altre intuizioni: stupida. Ero lì che già masticavo: “ma non da sinistra a destra, ma all’incontrario: così le pagine, nelle saghe o nei fumetti o nei romanzi a puntate, saranno consecutive anche una volta  riposte; la quarta di copertina del precedente, bacerà la prima del successivo… come naturale” (no, no, bell’intuizione utile e geniale, unica e fondamentale… bravo). Comunque, ero lì bello carico per dir la mia cagata, che mi è bastato un “no… dai, in ordine alfabetico no…” e poi m’ha solo accennato che i libri hanno bisogno di fantasia e libertà. E visto che lui di libri se ne intende, io mica ho avuto il coraggio di dir la mia cazzata, pareva di essere uno in doppiopetto che allunga un euro a un barbone, davanti a Gandhi.

E allora m’è scattato un altro terremoto che non son riuscito a togliermi dalla testa: “sì, ma poi come li ritrovo?!”. Io ho bisogno di sapere che quel pensiero è lì, che in quelle pagine posso trovare quello che mi pareva c’azzeccasse con questa situazione. Metodo, disciplina, ordine… sì, ne ho bisogno!

Ma se non fosse l’ordine alfabetico per cognome dell’autore… che altro ordine potrebbe esserci?!

Mi s’è insinuato uno strisciante: “per data di pubblicazione”, che tra tutti (cromatismo, collana, grandezza e molto altro) m’è parso il più abbordabile dal mio precario stato di salute mentale. Perché no?! In fondo è un ordine, l’ordine fondamentale delle cose, a questo mondo. Se non ci fosse stato Socrate, Platone non ne avrebbe scritto (e la mia mente malata e maligna continua a credere che molto probabilmente Socrate è un po’ come Dio, una gran burla, ben architettata da un manipolo di simpaticoni… solo che a Socrate credo e debbo assai di più).

Ma sì, in fondo uno dei motivi per i quali mi piace accostare i libri, è che stando lì ad annoiarsi, prima o poi si parleranno. E se Evangelisti parla con Deaver, saltan fuori un sacco di morti; ma metti che presti qualche libro, ne leggi qualcuno e lo lasci in cucina o al cesso (per le evenienze, visto che gli ingredienti di tutti i prodotti li sai a memoria) e finisce che Proust parla con Kierkegaard?! Nella mia soffitta ci scappano concezioni della logica che rasentano il nichilismo pneumatico, l’entropia a mach 15. Lodge con Eggers, mi ride il cartongesso; Asimov e Gibson… si raggiunge la singolarità. Insomma, metterli vicini per anno, probabilmente non li aiuta in questo scambio di idee, si ritrovano sempre nel brodo in cui hanno vissuto, non segreghiamoli per l’eternità nel loro presente passato.

Non ho il coraggio di staccarmi dal mio ordine alfabetico contrario, forse per paura, forse per semplice pigrizia, forse per un bisogno intrinseco di possesso o per un testardo affermarmi. E un po’ spero anche che questo ordine, il giorno in cui lo riuscirò ad attuare (sono ancora in alto mare, con il popolare le mensole), mi porti un po’ di calma e priorità e forza, anche in tutto il resto.

Ho voglia e bisogno di gustarmi la parola precedente, sorprendermi di quella attuale e sognare la prossima con la speranza che sia lì ad accogliermi anche dopo la quarta di copertina. Basta continuare a scrivere, basta avere quella sfacciataggine che hanno gli scrittori, quella sicumera che li porta a credersi, abbastanza da persuadere anche gli altri a farlo. Ho bisogno di mettere, di nuovo, i miei piedi in parole sicure, fisse, “lì”… così che il cuoreanimacervello possa tuffarsi innamorato, in tutto il resto.

Insieme con il fatto che l’abitudine porta a spingersi sempre oltre ai se stessi di prima, i momenti hanno anche un altro fardello sulle spalle: quanto vali ora?!

Ho una stupida concezione errata del merito e non riesco a dirimere la questione.

Molto spesso, davanti a un’opera d’arte mondialmente riconosciuta come tale, io non provo nulla, oppure non arrivo a capire che parte di essa (Mulholland Drive è un gioco che mi piace tantissimo, è una sfida splendida da affrontare, Inland Empire è una cagata… per dire). Mi ritrovo a chiedermi se non sia necessario avere una scala, un modello o un metro, per capire quanto valore intrinseco abbia la struttura e tutto ciò che non è misurabile è estro, fantasia, valore aggiunto e guadagno. Arte, appunto.

Guardando i disegni al Museu Picasso, per esempio, mi ricordo d’aver notato due cose, aveva modelli superdotati e sapeva disegnare assai bene (che uno, magari, può pensare che lui si sia inventato quella cosa lì del cubismo per giustificare il non aver tecnica).

Invece poi trovi delle band di “mal trà insèma” (come diceva mia nonna: “mal assortiti”) che non ne azzeccano una e si beccano gli stessi applausi che ti sei beccato tu, dopo 12 anni che ti migliori, cerchi di dare il massimo e cominci a pensare di esserci riuscito.

E allora ti auto assolvi tentando di spacciarti la bugia che non ti capiscano (se perseveri in questa pazzia, rischi tangenti autoindulgenti sconsigliabili), oppure che non capiscano nulla in generale (e qui passi dalla parte del torto a prescindere: se uno ha problemi con uno, la colpa può essere al 50%, ma se uno ha problemi con tutti è molto raro che tutti sbaglino (le eccezioni sono rarissime, ma una volta morto, il genio viene valutato correttamente (magra consolazione, lo so))). Io, invece, mi chiedo se il gusto sia sufficiente per spiegare e giustificare l’apprezzamento massivo di un’opera o un artista.

Perché a me i Depeche Mode fanno cagare. Ne ammetto l’importanza nella storia della musica moderna, leggera, pop, techno e quel che vuoi, ma a gusto, mi fan cagare. Sono diametralmente opposti al mio senso del suono, del ritmo, delle scelte d’arrangiamenti. Tanto che le cover altrui dei loro pezzi, arrivano a piacermi. Questo mio detestarli non li svuota del loro “perché”, non li rende meno fondamentali o da censurare come incapaci.

Ma allora dove sta il limite tra le peggior band del mondo e Kandinsky?!

A me Kandinsky piace. Non lo capisco, se non me lo spiegano, ma mi piace. Ha un gusto affine al mio, quindi, a pelle, mi piace. Ok, non mi piace come Friedrich, che è più terra-terra e lo capisco più facile, ma mi piace. Un buon 60% dell’arte moderna, oltre a non essere al mio livello concettuale di comprensibilità, mi fa spesso cacare anche di gusto. È grave dottore?!

Ma non si può applicare a tutti il metro di Picasso, perché ci sono autodidatti che non son passati attraverso le “pene” dell’esercizio e delle esperienze altrui, prima d’arrivare a una propria forma d’espressione. E sanno esprimere cose incredibili attraverso opere che non necessitano nemmeno di avere alle spalle un macigno di conoscenza didattica.

E non si può nemmeno utilizzare il solo metro del gusto, oppure l’unione del gusto con il momento (perché a volte io noto film che m’avevano sempre ispirato poco, che mi squarciano l’anima per la bellezza). E c’è anche quella subdola fregatura del salto mortale.

Il salto mortale è una di quelle cose che tu ci rischi la vita, ma all’atterraggio, sei messo uguale a quando sei partito (magari ti viene un po’ più da vomitare, ma son dettagli). E allora ci son quelli che fanno un passo, senza fare tutta la fatica del salto, e ti arrivano allo stesso risultato, prima e, magari, con maggiori apprezzamenti da parte del pubblico (prendi Biagio Antonacci o quelli lì… c’è più volte “amore” nei loro testi, che nella bibbia (ah, no… esempio sbagliato… vabbeh, s’è capito)… e loro non son passati attraverso le sevizie o le pene di Gandhi e di chi s’è fatto il salto mortale nel dolore, per arrivare a predicare la verità pura che c’è nell’amore).

E oltre a questi, ci sono milioni di fattori: il commercio, la mafia, gli standard che si abbassano, la brevità del successo, la bellezza fisica (naturale dote, non certo talento) e mille altri.

Quindi, cosa rende meritoria un’opera d’arte o un artista o anche solo una persona?!

Forse i fattori sono troppi, ma le prime due regole che mi sono imposto, sono:
1 – bisogna cercare di partire senza aspettative, tutto quel che viene è guadagnato
2 – un’opinione personale è come il buco del culo, ognuno ha il proprio e non è detto che sia profumato.

Parte tutto da un concerto, un bellissimo concerto.

Domenica sono andato a sentir J Mascis. Questo omone capelluto, che somiglia sempre di più a uno yeti, sia per postura che per canizie, è passato per portare il suo nuovo disco acustico, il primo con inediti, senza i suoi fidi dinosauri. Passa al Bloom e rimane fuori a parlare con i suoi amici (o forse ad ascoltare, visto che dice una parola al giorno, quando si sveglia spigliato), poi entra, sale sul palco, prende la chitarra, suona mezzo accordo, accorda, posa la chitarra ed esce. Poi torna, “hi, thank you”, suona, “bye, thank you” ed esce.

Tutto con la lentezza che lo contraddistingue. Che più che lentezza è un’inesorabilità che si trova anche e sempre nei suoi testi. Lui è uno che più che vivere, è vissuto. Nel senso che è la vita a vivere lui; lui sta lì e osserva, ascolta, prende, rielabora, mangia… e poi ti mette lì, come un orso buono, un pezzo di argilla dalla forma splendida. Triste, ma splendida. Struggente.

Lui ha questa cosa che ti fa sembrare facile quel che fa. Lui suona  e intanto beve, pigia i pedali e sembra non sapere come fare un sol, ma in dieci note ti trovi altrove e ritorno, senza nemmeno essertene accorto.

E tu non puoi che ringraziarlo, imparare e portarti a casa tutto.

Ma a pensare, cominci lì, cominci quando le note te lo fanno fare. Stai pensando che quella canzone è su un cd che hai dato a un amico e non glielo chiederai più indietro, quando uno ti spintona, puzzolente, e ti risveglia:
– NOOO… J Mascis!!
si gira a dire all’amico che si porta dietro. Ti si piazza di fianco, lasciando i tuoi amici a guardargli la nuca e la camicia di flanella (DI FLANELLA A UN CONCERTO!!! Ma allora ti piace il tuo odore di vomito d’orco).
– Scusa!?
– Oh
– C’è gente che…
– Oh, amico, è J Mascis, il mio mito…
– Penso lo sia un po’ per tutti… e c’è qualcuno che se lo stava guardando con calma…
– Ok, scusa
e fa un passo indietro… per mezza canzone, poi spintona il triplo e passa oltre, arrivando in terza fila.

Ora, mi son stato sul cazzo da solo, perché la spocchia con cui l’ho apostrofato, avrebbe riempito il locale, ma tutto questo m’ha fatto riflettere (effigurati se non arriva il pippotto…):
1 – non ricordo perfettamente la conversazione, è andata più o meno come l’ho trascritta, ma quello deve aver detto davvero “amico”… e per un adattatore è come accusare una catena di fast food per l’obesità dei bambini: “sei stato tu a farmi dire questo!!!”;
2 – che diritto ho, io, di impedire a uno di avanzare?! Ma questo pensiero l’ho buttato via subito, perché è stato sicuramente generato dal pessimismo cosmico del J, e poi perché il mio diritto di dirgli con gentilezza che tirare gomitate per star meglio degli altri è sbagliato, ha sicuramente più ragione del suo tirar gomitate;
3 – che cazzo me ne frega del tizio che passa?! Son qui a sentire il Mascis!!! Ci sono venuto da solo, ci sono venuto dopo due giorni di assurdo degenero addioalcelibatico, ci sono venuto spendendo 15 euro (che non sono 12, ecco, che è tutta un’altra cosa); godiamoci il Mascis, punto.

E mi son rituffato nel fiume e mi son ritrovato a imparare un sacco di cose. Avevo invitato una persona quasi sicuramente digiuna di Mascis, convinto potesse piacere, ma, una volta lì, ho pensato che anche acustico, non è proprio il più facile da approcciare, come artista. Uno che fa partire la loop-station con cinque accordi e ci sta sopra 6 minuti ad assoleggiare, non è Joplin che suona “The entertainer” (trovatemi qualcuno a cui possa non piacere sta canzone!), per dire.

E allora m’è tornato in mente un salterello di pensiero che m’era sorto poche ore prima, durante il viaggio di ritorno dall’agriturismo: il festeggiato prende il microfono dell’autobus che ci ha scarrozzati per ore e giorni e arringa concludendo con “ho i migliori amici del mondo!!!”.

Quante volte l’avrà sentito dire l’autista?!

Personalmente era il mio primo addio al celibato, mi sono divertito un mondo, per la gente (non certo per il locale e l’atmosfera capodannesca, s’è toccato picchi di volgarità che tutti, una volta sobri, hanno commentato tappandosi gli occhi), ho conosciuto meglio alcuni amici, ho visto mille sorrisi e brindisi e pacche e accordi e perfezioni. Ma lui, l’autista, quante volte avrà visto gente uguale e diversa da noi, quanti diranno le stesse nostre parole, quanti crederanno di essere i migliori amici del mondo?!

Tutti. Ma è giusto così. Il Mascis è il mito di quello lì davanti, che parla ancora con il suo amico, anche se quest’ultimo è rimasto lì al mio fianco (quindi urla, suscitando un po’ di ira in chi cerca di sentire il concerto, lì intorno), ma è anche il mito del centinaio di persone che sono lì.

E cosa rende uniche tutte queste situazioni?!

L’io, l’esperienza, il contesto, la vita in sé. La medesima magia che è il crescere.

Io ho deciso che per me è magia, quella del crescere come sei. Tu nasci ed è un fatto. Impari le cose che i tuoi genitori, o chi per essi, ti insegnano, ed è un fatto. Vivi, subisci e padroneggi tutte le esperienze che ti capitano o cerchi, e anche questi son fatti. Ma l’indole?! L’attitudine con cui fai tutto?! Quel tuo puro e profondo modo d’essere che hai tu, è tuo e di nessun altro, che definisce il tuo carattere, che ti fa essere, che ti fa decidere se essere buono o cattivo o entrambi. Ecco, quello è magia. O sogno. Che poi è la stessa inspiegabilità.

E allora io sono lì a farmi cullare dalle note e a cullarmi volontariamente, nello stesso istante. Attivo e passivo essere che vive quel momento. Arrivato lì grazie e nonostante tutti i momenti passati. Perché?! Magia.

Non credo in un dio, credo nella differenza e unicità di ognuno e credo di avere bisogno di tutta questa diversità, per prender forza dall’unicità. I tizi che mangiavano davanti a noi, sabato sera, avevano i modi, le parole, quasi anche le facce di quelli che al massimo aspirano (oltre che la coca, per essere in) al grande fratello, ma per loro, tra loro, con loro, erano perfetti ed erano i migliori. Noi, lo eravamo per noi, tra noi, con noi.

Bisognerebbe saper sintetizzare questi concetti, scriverci un libro, o anche solo una canzone con un testo. Ma non ne son capace, mi limito a sentirmi grato di poterli vivere.

Ognuno di noi sa quando è stronzo oppure no. Ci sono quelli che nascono con uno standard alto e, magari, devi far loro capire che il loro essere stronzi è un po’ troppo, per una convivenza civile; altri, invece, si sentono stronzi anche a respirare, per questo esistono gli psichiatri.

C’è però una cosa che la religione (soprattutto quelle abramitiche) ha distorto alquanto (ok, non solo una, ma concentriamoci su questa, oggi): il perdono.

Ok, perdonare è nobile, ti senti un gran figo a poterti permettere di perdonare qualcuno, ti dici: “ahah… beccati questo, nonostante tu mi abbia tirato un brutto scherzo, io non me la prendo, anzi, te la faccio passar liscia”. Ma, nonostante le declinazioni di “non fare al prossimo tuo ciò che non vorresti fosse fatto a te”, questa “mossa” del perdono, passa un po’ sempre come “divinizzante”. Intendo, tu che perdoni, ti avvicini a dio, facendolo. Sei un po’ più dio, se lo fai.

Quel che la gente capisce, però, è che se perdona una volta, la volta seguente ha il permesso speciale di dio per essere stronza.

In realtà il perdono dovrebbe essere una cosa normale (ok, ok, non cominciare con gli omicidi, adesso spiego il perché). Insomma, l’umanità ha imparato a capire (anche solo a parole) che gli esseri umani sono tutti uguali; ciò significa che hanno lo stesso valore. In un universo così vasto e articolato, l’esistenza di un singolo essere umano, vale quanto un full d’assi a pallanuoto. Nella macchina complessa che è la vita su questo pianeta, però, il valore di ogni singolo essere, è variabile e calcolabile.

Gli individui contemplati nel gioco del perdono sono generalmente due: il perdonante e il perdonato. In base a quanto stronzo sia uno dei due, il valore del perdono aumenta o diminuisce. Perciò avremo:
1) perdonante non stronzo Vs. perdonato non stronzo
2) perdonante non stronzo Vs. perdonato stronzo
3) perdonante stronzo Vs. perdonato non stronzo
4) perdonante stronzo Vs. perdonato stronzo

Caso 1: il valore di entrambe le persone in gioco è alto, chi perdona sa che chi andrà perdonato non tenderà a ripetere l’errore, non è quindi un enorme sforzo non curarsi di ciò, ma guardare e passare;
Caso 2: il valore del perdonante è maggiore di quello del perdonato, senza finire per essere coglioni, non sarà difficile dare il giusto peso all’affronto di uno stronzo;
Caso 3: chi vorrebbe sfruttare a proprio vantaggio la moneta del perdono contro chi non fosse uso alla pratica di “offendere” o “far del male”, non dovrebbe avere vita facile, se nella realtà valesse il caso 2;
Caso 4: chissenefrega, son stronzi.

Il problema è che la realtà fatica ad andare come dovrebbe e quindi funziona quasi sempre tutto al contrario; quindi io mi sento stronzo a respirare, ma mi sembra normale, naturale e dovuto perdonare qualsiasi cosa a chiunque. Il fatto è che scopro il valore del perdono, quando davvero mi interessa far capire che non ho nulla da perdonare alle persone alle quali tengo.

C’è poi tutto il discorso sulla gravità dell’atto da perdonare, ma mi ci vorrebbe una casistica infinita e già non è arrivato qui un decimo di chi è sopravvissuto al titolo.

Ps. e questo era anche un po’ per dire che, alla fine, ho aperto quel posto che da oggi in poi ruberà questo nome. Per questo posto, me ne verrà un altro … con calma.

L’essere seduti in un abitacolo d’automobile è condizione sufficiente, ma non necessaria, perché si sprigioni la più alta necessità di infilarsi le dita nel naso.

L’urgenza di tossire, a teatro, è direttamente proporzionale alla topicità del momento e inversamente proporzionale al volume dei suoni provenienti dal palcoscenico

L’esistenza di un elemento interno all’insieme A, ma esterno al sottoinsieme S, non implica che gli elementi di S siano ipso facto annoverabili nel sottoinsieme N; dove A sta per Assurdo, S per Strano e N per Normale.

Il valore di un’opera d’arte non dovrebbe essere determinato dalla differenza simmetrica degli insiemi Comprensibile, Innovativa e Piacevole, ma dalla loro intersezione.

La compatibilità di un essere umano con un altro, non è quasi mai commutativa.

La probabilità che qualcosa funzioni, che un oggetto si ritrovi o che un desiderio s’avveri, non aumenta all’innalzarsi di numero e intensità delle imprecazioni, ma solo all’approssimarsi a zero della loro necessità o utilità.

Giornate di parole, queste. Perché le parole sono importanti.

Mi capita una coincidenza più forte della realtà che ho cercato, ci lego aspetti e significati tutti miei, che aiutano a dipanare matasse e creare altri gomitoli; tengo per me alcuni indizi e arrogo colpe a chi non ne ha, prima di capire di non essere un granché come detective, essendo l’assassino.

Alla conferenza con Coe, sono arrivato presto. Questa coincidenza m’ha permesso di ascoltare le sagge parole di Valérie Tasso, che ha parlato di sesso e donne e uomini e Freud e tanto altro. Ne ha parlato con la disinvoltura che ammiro sempre, ne ha parlato con cognizione e saggezza. Ne ha parlato con la schietta tranquillità di chi non fa mistero della propria debolezza. La debolezza dei puri: la curiosità.

Sto leggendo il suo libro, lo sto leggendo in un modo differente da quello in cui l’avrei letto senza averla conosciuta, anche se per poco e anche se filtrata dalla situazione. Lo sto leggendo carico di quel che ha spiegato, che ha lasciato intendere e quel che ha saputo trasmettere. Lo sto leggendo per imparare quel che vuole e, come sempre, per imparare ciò di cui ho bisogno, ciò che voglio e ciò che cerco.

Tralasciando la coincidenza più leggera di averla sentita dire: “pensate, c’è una parola che definisce una donna che prova desiderio: ninfomane; ma non esiste una corrispondente maschile, e se esiste non ha più l’accezione primaria, oppure nessuno la conosce: satiro” e di aver visto “E morì con un felafel in mano” il giorno seguente, notando una battuta tra le tante:
lei – pensa, ci sono tanti modi per definire una donna che non prova desiderio: frigida, fredda (e altri che non ricordo); ma esiste una parola che definisca un’uomo che non provi desiderio?!
lui – “morto”!

La coincidenza è, come spesso accade, tirata per i capelli, ma ci sta. La storia che vorrei riuscire a scrivere in questo periodo, parla di coincidenze e del peso che le persone danno loro. La coincidenza reale, che ho sentito in questi due accadimenti (la conferenza e il film), uniti a ciò che sto vivendo in questo periodo, è stata che tutto, spesso e volentieri, ruota intorno all’essere se stessi. Il resto lo fa il caso.

Quel che mi fa tremare, spesso e volentieri, è la mia poca sicurezza in ciò che sono, in ciò che vorrei essere e in ciò che i centomila si aspettano da me. E se il caos incontra altro caos, di certo non crea troppe sicurezze.

Di certo so che queste strane coincidenze mi rassicurano, mi aprono gli occhi e mi aiutano a scoprire cose sempre nuove, sempre diverse. E imparare è il modo migliore per riempirsi di qualcosa, magari anche solo di storie. E si sa quel che si è, finché si hanno storie da raccontare: vivi.